La salsa di pomodoro è l’elemento base della cucina italiana. Pochi sono infatti i piatti tradizionali che non abbiano il fondo rosso e polposo. Soprattutto al sud.
Tant’è che “fare la salsa” era un appuntamento imperdibile delle giornate d’agosto. Si faceva la scorta per l’intero anno trascorrendo in compagnia delle lunghe e calde giornate estive. La salsa metteva insieme grandi e piccini. Univa le famiglie e accordava a ciascuno un compito ben definito. “Fare la salsa” aveva il sapore dell’estate, aspro, caldo e salato. Inoltre i pomodori erano in genere di produzione propria, quindi una sorta di scelta bio del tutto inconsapevole.
La salsa e quelle bottiglie “sacre”
Abbiamo chiesto in giro ed è emerso che, in generale, tra i più bei ricordi di famiglia vi sono quelli legati proprio alla salsa. Il primo passo era il recupero delle bottiglie. La questione era a dir poco seria, perché quelle del latte non erano idonee in quanto durante la bollitura scoppiavano con più frequenza. Il recupero di bottiglie di buona qualità era prioritario. Le bottiglie erano “sacre”! Il dramma delle bottiglie esplose in fase di bollitura era infatti profondamente sentito. Ma su questo punto ci soffermeremo più avanti.
La raccolta delle bottiglie quindi avveniva nel corso dell’anno, poiché non era consigliato usare quelle dell’anno precedente. Una volta raccolto un numero di bottiglie adatto ai litri di salsa che s’intendevano produrre, si procedeva al lavaggio. Alcuni le lavano addirittura con la sabbia, probabilmente per scrostare lo sporco più testardo. Dopo il lavaggio, le bottiglie si lasciavano in ammollo un’intera notte. Al mattino seguente, tutti allertati di buon’ora, ci si metteva all’opera.
Le prime ore del mattino nei giorni della salsa
Spesso era l’ombra dei pergolati d’uva a far da cornice al lavoro mattutino. Ci si alzava molto presto, era ancora buio. Il lavoro era lungo, il sole d’agosto cocente. Fare la salsa richiedeva la frescura dell’alba. Il giorno della spremitura ognuno aveva il proprio compito. Era necessario lavare bene i pomodori scartando quelli marci. Di questo primo aspetto, essendo il più delicato, se ne occupavano le donne. Le mamme e le nonne erano infatti esperte nell’arte della salsa. I pomodori che superavano l’attento controllo finivano nelle vasche per il lavaggio, poi si tagliavano e si disponevano col sale su delle ceste di vimini.
Lo scopo era quello di far asciugare l’acqua superflua. Infine si immergevano in un grande pentolone chiamato in gergo dialettale quadara. La bollitura durava abbastanza da consentire il cambio di scenario. Sparivano le vasche e apparivano le macchinette per spremere pomodori a caldo. A questo punto, in molti casi, apparivano gli uomini che si davano il turno per girare la manovella. Prima della spremitura a caldo, in alcune famiglie si usava quella a freddo. I pomodori dunque si bollivano dopo la spremitura.
Il ruolo dei bambini
Affermando che tutti avevano un ruolo nelle giornate dedicate alla salsa, intendiamo proprio tutti. Anche i bambini. In alcuni casi il loro compito era quello di trasportare i pomodori nel pentolone, prima che le donne accendessero il fuoco per la bollitura. In altri casi invece davano il cambio ai loro padri o ai nonni nella faticosa impresa di girare la manovella della spremitrice. O sistemavano una fogliolina di basilico nei vasetti caldi riempiti dagli adulti. Negli anni Trenta, ad esempio, i pomodori si setacciavano su dei congegni, i setacci appunto, che consentivano l’estrazione di una specie di crema.
Siccome le manine dei bambini erano più adatte a questo tipo di lavoro, venivano reclutati per tutto il paese con l’allettante ricompensa di una caramella. I bambini setacciavano i pomodori e la crema veniva conservata nei cosiddetti “salaturi”. Era una sorta di concentrato che poi veniva diluito in l’acqua.
La salsa, il tappo di sughero e le bottiglie scoppiate
Le bottiglie scoppiavano. Non v’era via d’uscita! Una volta spremuti i pomodori e imbottigliata la salsa, le bottiglie venivano inserite nella quadara, prontamente lavata. Le donne riempivano d’acqua il pentolone, avendo cura di separare le bottiglie con degli stracci fermati con sassi. In questo modo si limitavano i danni poiché si impediva il movimento durante il bagnomaria. Prima dell’avvento dei tappi a corona, si usavano i tappi in sughero annodati con spago. Il nodo era particolare e non tutti sapevano farlo. Tant’è che nel paese v’erano sempre quelle due o tre donne esperte che si chiamavano di volta in volta per la fase di legatura.
Ma sia coi tappi in sughero che con quelli a corona, le bottiglie scoppiavano. E i timori del malocchio gettato su tutta quella fatica estiva si concretizzavano. Il giorno dopo infatti le donne si riunivano e la resa dei conti non era per tutte una gioia: chi contava cinque bottiglie scoppiate, chi dieci, chi nessuna. La conta era sempre un’incognita e spesso le “esplosioni” avvenivano anche a bottiglie fredde, perché magari dal tappo in sughero era entrata aria o acqua.