L’editoria italiana, sempre più in crisi di autori, di idee e perfino di carta, prova a sopravvivere a se stessa, giacché costantemente a corto di ossigeno sintattico, a colpi di tosse autoindotti, irregolari; estratti, quasi liberati, da un’omeopatica devozione alla qualità di una sparuta ma tenace maestranza indipendente.
Ci dà sollievo, per esempio, il ritorno allo splendore della casa editrice emiliana Diabasis che, fondata dal visionario Alessandro Scansani, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta si iscriveva alla testa della piccola editoria emergente, fino a essere definita da Claudio Magris una delle case più interessanti del panorama nazionale. Dopo un periodo di crisi, dovuto anche alla dipartita del suo genitore, Diabasis da qualche anno sta gradualmente riattivando un filone di narrativa benfatta in cui risuona la memoria dei fasti della collana “Al buon corsiero” e da cui si può già riestrarre qualche pepita purissima (pensata, selezionata e incastonata in una logica propositiva di rieducazione alla lettura attiva) come “Alchimia Ars Moriendi” di Davide Barilli. Un libro che, in poco meno di settanta pagine, ci restituisce il piacere di una cifra narrativa ribelle agli schemi prefabbricati raschia scaffale. Siamo risucchiati in una dimensione psichica, posizionata nel 1540, in cui il pittore Parmigianino ci apre un passaggio tra la vita e la morte, svelando meccanismi e interazioni indescrivibili se non attraverso la costruzione di uno scenario transdimensionale, surreale, onirico: il tantrismo ortodosso tibetano pre buddista (evocato dalla sepoltura a corpo nudo) si sovraimprime a un contestualizzazione rinascimentale meramente allusiva in cui il paesaggio fantastico risveglia la memoria emotiva di alcune sequenze de “La montagna sacra”. E di “Santa Sangre”.
L’oro che, secondo l’alchimia può sconfiggere la degenerazione cellulare, è l’archetipo del sogno d’immortalità. E la scavazione spasmodica dell’oro quale elemento necessario alla sublimazione dell’arte ne è metafora. Di Barilli sapevamo gli eleganti elzeviri e i romanzi, finemente rivoltosi come il suo ricciolo nero, stilosi come il suo sigaro e la camicia sbottonata. Ma, in questo mini capolavoro di atmosfere alla Jodorowsky, elargisce una scrittura di rara astensione, scevra di invadenze estetiche, pur concedendosi ben più di una pennellata manierista: ciascuna allo stretto servizio dell’impianto narrativo, declinato su un periodare fluido e moderno, libero da ruffianerie, trucchetti e standard. Scandito da sintassi euritmica.